The James Joyce Italian Foundation, with its President Franca Ruggieri and the members of the executive committee, Rosa Maria Bosinelli, Carla Marengo, John McCourt, Paola Pugliatti, Romana Zacchi, and its honorary trustee Umberto Eco, wishes to announce the death of its honorary trustee, Professor Giorgio Melchiori, father of Joyce Studies in Italy and renowned member, critic, essayist, translator.
May he rest in peace.
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LinkAddio a Giorgio Melchiori (Italian)
During the non-religious funeral at Università Roma Tre, some of his friends and scholars wanted to remember the figure of Professor Melchiori as a man, a scholar, a teacher and, above all, a friend, as proved by each speech.
Vittorio Gabrieli
E così ci ha lasciati, Giorgio, supremo funambolo e maestro d\’ambiguità. Non è caduto dalla corda tesa; ne è sceso. Era stanco, dopo aver percorso tanta strada su quella pericolosa fune: da Michelangelo nel \’700 inglese, a John Donne, a Shakespeare, Yeats, Joyce e i \”giovani arrabbiati\”. Aveva accompagnato i suoi studi sui classici del Rinascimento e dell\’umanesimo cristiano (Thomas More) con quelli sui Nuovi Movimenti letterari dell\’età moderna. Si è spenta con lui una grande luce nei nostri studi. Addio, Giorgio amico carissimo.
Renato Oliva
Incontrai Giorgio Melchiori quando, diciannovenne, frequentavo il primo anno del Corso di Lingue e Letterature Straniere nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino. Tra pochi anni il nostro rapporto avrebbe dunque avuto mezzo secolo di vita. Un rapporto con un maestro e un amico insostituibile la cui scomparsa mi tocca così profondamente da farmi temere di venire sopraffatto dall’emozione e dal dolore. Cercherò, tuttavia, di dire qualche parola perché sono sicuro che Giorgio, sapendo che sono un introverso e ho pudore dei miei sentimenti (un tratto di carattere che ci accomunava, ci faceva sentire vicini e capaci di comunicare anche in silenzio), mi perdonerà la semplicità informale e disorganizzata di queste parole.
Rappresento qui non solo me stesso ma molti allievi, amici e colleghi dell’Università di Torino. È quasi superfluo ricordare il segno profondo e l’eredità lasciati dall’insegnamento di Giorgio nei suoi anni torinesi, ai quali Giorgio stesso ha dedicato un capitolo del suo volume autobiografico Foglie. La riprova dell’affetto che circondava, circonda (e circonderà) Giorgio a Torino la avevo ogni volta che scendevo a Roma a trovarlo: era una costante, continua richiesta di essere ricordati a lui, di salutarlo, di avere sue notizie fresche. E, sempre, il volto di chi mi faceva queste raccomandazioni si illuminava in un sorriso: sorriso che testimoniava come a Torino fosse rimasto vivissimo non solo il ricordo dell’intellettuale, dello studioso, del critico raffinato, del docente impegnato, ma anche la memoria dell’uomo, della sua apertura, della sua disponibilità, della sua gentilezza, di tutte le sue qualità umane; sorriso che faceva trasparire insieme alla stima e all’ammirazione il piacere di aver conosciuto Giorgio.
Non voglio nemmeno far cenno alla statura intellettuale di Giorgio e alla sua grandezza di studioso. Le sue opere, e i riconoscimenti nazionali e internazionali che ebbe, sono lì a renderne testimonianza. Voglio invece sottolineare che in questo momento di gravissima crisi dell’università italiana (anche se, da quando vi entrai come studente a oggi, l’università è passata, senza soluzione di continuità, di crisi in crisi, fino a quella attuale che ne mette a rischio la sopravvivenza, la possibilità di non decadere a luogo marginale incapace di produrre ricerca e didattica di eccellenza) dobbiamo continuare a dir grazie a Giorgio, che con la costanza, la tenacia e la totalità del suo impegno ha significativamente contribuito, e ci ha stimolato, a mantenere alto il livello della didattica e della ricerca. È grazie a uomini come Giorgio che possiamo ancora dire con orgoglio di essere docenti universitari; e potremo continuare a dirlo se ne seguiremo l’esempio. È grazie al suo ininterrotto e appassionato impegno civile, impegno di un uomo che credeva fermamente che la scuola pubblica è uno dei pilastri della democrazia, se sentiamo di poter ancora sperare nel futuro dell’università italiana.
Avrei voluto, poi, dire qualcosa dell’uomo Melchiori, così come l’ho conosciuto. Delle mie poche parole, queste, le più intime, sarebbero state le più difficili da pronunciare; e ho capito che, in ogni caso, non ci sarei riuscito in una circostanza tanto dolorosa. Ho ritenuto, perciò, fosse meglio dar voce alla poesia, ricordando qualche verso di poeti che Giorgio mi fece conoscere quando, studente, frequentavo le sue lezioni: versi che mi sono riaffiorati in mente quando ho saputo della sua scomparsa.
In primo luogo, Dylan Thomas.
Do not go gentle into that good night,
Old age should burn and rave at close of day;
Rage, rage, against the dying of the light.
Una delle cose che Giorgio, con il suo esempio, mi ha insegnato è la capacità di affrontare con stoicismo la sofferenza. Accadeva però, talvolta, negli ultimi tempi, che la pena causatagli dall’impossibilità di vedere e di leggere lo facesse scivolare nell’angoscia , o lo accendesse in qualche moto d’ira. Sapendo delle mie frequentazioni psicoanalitiche mi chiedeva, scherzando, di spiegargli cosa stesse accadendo nella sua testa. Io, scherzando in risposta, obiettavo che capisco già poco di ciò che succede nella mia; figuriamoci nella sua. E gli citavo Dylan Thomas, dicendogli che mi pareva normale che nella sua endurance (e qui finivamo a parlare del King Lear), nella sua ammirevole capacità di sopportazione e di resistenza si aprisse ogni tanto una falla da cui usciva il fiotto della disperazione per la perdita della luce.
Ora quei versi dovrò ripeterli a me stesso. Perché, per me, in tutti questi anni, Giorgio è stata una luce. E se una parte di me accetta la sua scomparsa al termine di una vita lunga e piena, un’altra parte non riesce ancora ad accettarla e infuria contro il morire della luce.
In secondo luogo, William Butler Yeats. So, per averne più volte discusso con lui, che Giorgio riteneva l’uomo terra destinata a tornare alla terra. Ma non posso fare a meno di immaginarmelo vivo non soltanto nelle nostre piccole memorie individuali, ma anche in viaggio verso un’Anima Mundi, in viaggio, spirito a cavallo del fango e sangue del delfino, verso una qualche Bisanzio, dove il cuore umano, malato di desiderio e legato a un animale mortale, possa essere accolto nell’artificio dell’eternità. Una Bisanzio evocata dalla traduzione yeatsiana di Giorgio.
Un uomo anziano non è che una cosa miserabile,
Una giacca stracciata su un bastone, a meno che
L’anima non batta le mani e canti, e canti più forte
Per ogni strappo nel suo abito mortale,
Né v’è altra scuola di canto se non lo studio
Dei monumenti della sua magnificenza;
E per questo io ho veleggiato sui mari e sono giunto
Alla sacra città di Bisanzio.
Infine, Robert Browning. Quello su Browning fu il primo corso universitario tenuto da Giorgio che frequentai. Una delle poesie che ci lesse fu A Grammarian’s Funeral. I versi sono detti da uno degli studenti che portano il corpo del loro maestro, un grande studioso, in cima a un monte, per seppellirlo lassù, in alto, lontano dalle bassezze della pianura. Ora, a me, grammarian ricorda, per associazione, che Giorgio, oltre che acutissimo e raffinato critico letterario, è stato anche un grande filologo shakespeariano, uno studioso delle strutture teatrali, della grammatica del teatro di Shakespeare. Certo, per molti aspetti, Giorgio era lontanissimo dal grammarian di Browning, di cui si dice: This man decided not to live but know. Giorgio, al contrario, amava la vita. Porto con me, tra gli ultimi ricordi, quello di una mattina autunnale in cui lo accompagnai fino al mare di Fregene: e, lungo il percorso, si godeva il tepore del sole, identificava con piacere e commentava con allegria i profumi degli alberi, delle foglie, dell’aria, e l’odore dei cibi che venivano cucinati nelle case. È però vero che ogni grande studioso sacrifica, come il grammarian di Browning, un pezzo più o meno grande della sua vita alla conoscenza.
Salutiamo allora Giorgio coralmente con questi versi, che (Giorgio amava molto l’opera) potrebbero anche essere un coro operistico romantico o tardo romantico: versi percorsi da un’idea di comunione e fusione, dopo la morte, con la Natura creatrice, idea cara a Giorgio.
Let us begin and carry up this corpse,
Singing together.
This is our master, famous, calm, and dead,
Borne on our shoulders.
Here’s the top peak; the multitude below
Live, for they can, there.
Here–here’s his place, where meteors shoot, clouds form,
Lightnings are loosened,
Stars come and go! Let joy break with the storm,
Peace let the dew send!
Lofty designs must close in like effects:
Loftily lying,
Leave him–still loftier than the world suspects,
Living and dying.
Franca Ruggieri
Quante volte capita di dover dire, nel corso delle nostre affannose giornate, che le parole sono inadeguate, non bastano, non rendono la cosa, non sanno darne il significato profondo, perché, al di là di ogni formula d’uso, non sempre sappiamo dire la cosa “in poche parole”, e allora… la tentazione del silenzio affascina.
Ritorna alla mente l’inizio del King Lear, dove alla effusione di ridondanti e false profferte di affetto di due figlie, la terza, contrappone l’ostinato silenzio di un nothing, un silenzio che segna l’impossibilità per chi volesse essere nel vero di dire tutto il pensiero.
Noi sapevamo che la salute di Giorgio Melchiori era diventata molto fragile e che, negli ultimi mesi, solo l’affetto e l’attenzione di una famiglia speciale, riusciva a tenerlo in vita. Eppure, a distanza, ci eravamo abituati al pensiero che quel corpo fragile e martoriato potesse resistere a qualsiasi attacco. Delle sue letture e delle sue analisi,di Shakespeare, di Donne, di Michelangelo, di Sterne, di Joyce, di Yeats e di tanti altri, del suo intenso lavoro di critico, di filologo, di editor, di scrittore, del rigore e della lucidità dell’impegno scientifico e didattico del professore; del suo amore per la musica e per l’opera si dirà molto ancora in seguito, non qui. Così pure si dirà della sua antica e coerente insofferenza per la teoria. D’altra parte, il suo approccio “tradizionale”, per alcuni, al testo, nel 1996 veniva enunciato in una curiosa formulazione in una recensione a Joyce’s Feast of Languages e a Joyce: il mestiere dello scrittore, pubblicata su una rivista britannica, dove si diceva “Melchiori’s book shows what the best traditional approach can still offer to readers of Joyce in the era of theory”. Solo uno sguardo ai titoli ci convince che quel metodo tradizionale aveva radici ben salde e rinnovate, tra l’altro si apriva alla dimensione comparatista, fin dall’inizio, con Michelangel nel Settecento inglese e The Whole Mystery of Art alla cui traduzione sta, tra l’altro, lavorando Fabio Luppi, ai due ultimi contributi Joyce barocco/Baroque Joyce e The Music of Words.
Io vorrei piuttosto ricordare qui la sua ironia, che era anche autoironia, il senso della marginalità oggi della funzione del critico letterario, la dimensione coerentemente, coraggiosamente laica del suo impegno civile, della sua affermazione della dignità umana. Anche nel corso di una breve conversazione si avvertiva subito che c’era, osservatore attento e coerente, la sua attenzione lucida e critica al presente e alle complesse vicende di oggi non veniva mai meno e si mescolava con le rinnovate letture della letteratura.
Un uomo intero, un intellettuale integrale, si sarebbe detto organico, una volta, ma le parole, lo sappiamo, seguono le mode e suonano stridenti quando le mode passano. Ma questo era il segno individualizzante della sua personalità, quel ritmo individualizzante , quel diagramma di un’emozione che Joyce suggeriva di cogliere nel primo esercizio di scrittura per un ritratto dell’artista, nel 1904, pubblicato postumo, che Giorgio aveva tradotto per il primo Meridiano dell’opera di Joyce.
E della tensione, così essenziale, a “collegare e stabilire nessi tra cose, fatti, persone e tutto giustapporre come su un palinsesto”, di quella dimensione sterniana e inquisitiva della sua scrittura, dove tutto – letteratura, cultura, le vicende della vita di ogni giorno – tende a ricomporsi, come le tessere di un gigantesco puzzle, come Giorgio dice, l’ultima testimonianza preziosa è Foglie per un anno, l’ultimo libro scritto,ormai nonvedente, sull’onda di una straordinaria memoria. E alla nostra memoria quel libro non-libro, come lo diceva il suo autore, si propone come il ritratto più vero dell’artista, del critico, dell’intellettuale partecipe, quale era Giorgio Melchiori, un modo di essere sempre più raro.
Fabio Luppi
Per Giorgio Melchiori; un ringraziamento, un ricordo.
Ricordo quando nel 2001, la professoressa Arnett, mia docente di Letteratura inglese moderna e contemporanea e presidente di commissione quando mi laureai, mi mandò una lettera; c’era scritto se potevo chiamarla al numero sul biglietto da visita: “Nothing urgent”, si era premurata di sottolineare. Chiamai e mi disse che il marito aveva bisogno di un aiuto le mattine per continuare a lavorare: ordinare la corrispondenza, prendere appunti sul computer e fare ricerche tra i libri negli scaffali delle librerie di casa (di Roma o di Fregene). Chiaramente accettai subito e la professoressa mi domandò: “Ma lei conosce già mio marito?”.
Istintivamente risposi di sì: quale studente di lingue non conosceva Giorgio Melchiori? Ma non era quella la domanda. La domanda non era “lei sa chi è mio marito?”, ma “lei conosce mio marito?”. Non lo conoscevo, ma sono stato fortunato perché ho avuto otto anni per conoscere il Professore. In questi anni, parlando di Giorgio Melchiori l’ho sempre chiamato, il Professore, perché per me era il Professore per antonomasia, e così parlando con lui, sempre lo apostrofavo “professore”. Mi ricordo quando un giorno, circa un anno fa, leggendo il giornale e commentando le pagine di politica che come spesso accadeva, lo facevano infuriare, rivolgendomi a lui continuavo a ripetere il consueto titolo, “Professore”… “professore, cosa ne pensa di questa notizia?”; “professore, le leggo questa pagina”; “professore…”. Mi interruppe e disse: “ma lei non mi sta forse professorando un po’ troppo?!”. La sua ironia era sempre presente: nel suo ultimo libro, Foglie per un anno, ricordando proprio i suoi momenti di ira, scatenati dalle condizioni della vista che andava peggiorando, o dalla lettura di passi del quotidiano, si definiva “il vegliardo iracondo”. Ancora, scherzando con la professoressa Ruggieri, aveva preso a chiamarmi “l’allievo postumo” perché avendolo conosciuto nel 2001 non avevo mai seguito le sue lezioni.
Ma, come non era vero che nel 2001 già conoscevo il Professore, nemmeno questo era vero. Infatti, quando andavo a lavorare da lui, al mattino, e scriveva i suoi pezzi dettandoli al computer a volte accadeva che gli facessi delle domande. Cercavo di farle quando capivo che era finito un paragrafo o un pensiero, gli domandavo il perché di alcune sue affermazioni, oppure delle delucidazioni su aspetti che mi risultavano oscuri, e allora avevo la fortuna di poter ascoltare delle lezioni straordinarie: erano spesso racconti di storia (che il Professore aveva vissuto in prima persona, come il bombardamento di San Lorenzo che vide da vicino, trovandosi in quel momento proprio alla città universitaria; o il suo arrivo ad Hull in Inghilterra nel 1945, con un passaporto da “enemy alien”), o i racconti di quello che per gli studenti delle ultime generazioni sono già storia letteraria (i suoi maestri; su tutti, Mario Praz, Natalino Sapegno e Pietro Toesca), oppure aneddoti personali nei quali mi parlava di Gabriele Baldini (che quando tornavano a casa dopo una serata all’opera era solito intonare le arie che avevano ascoltato poco prima) e Natalia Ginzburg, di Fruttero e Lucentini, di Elèmire Zolla (che prima di sorseggiare la birra la scaldava leggermente con uno “scaldino” da tasca), o di quella volta in cui Italo Calvino lo andò a trovare in ospedale a Torino dicendogli che la Einaudi aveva finalmente deciso di pubblicare Seven Types of Ambiguity di William Empson. Ma Calvino aveva posto una condizione indispensabile: “che sia tu, e soltanto tu a farlo. Perciò non fare scherzi”. Dunque posso dire che non è vero che non abbia avuto anche io la fortuna di trovarmi a lezione da Giorgio Melchiori.
Ma non voglio elencare tutto quello che il professore mi ha spiegato, raccontato ed insegnato. Vorrei aggiungere però che quando gli ponevo delle domande, lui sempre si interrompeva, mi spiegava e mi raccontava. Incidentalmente, quello che mi colpiva era il fatto che in qualunque interruzione del lavoro, fosse una mia domanda, una domanda della professoressa Arnett, o una telefonata come quelle consuete degli amici più stretti, quali il professor Vittorio Gabrieli, Agostino Lombardo o Erasmo Valente, immediatamente dopo, tornando al pezzo che si stava scrivendo, il Professore ricordava esattamente l’ultima frase dettata, anche se era stata lasciata a metà e interrotta bruscamente; e chiaramente, ne ricordava anche la conclusione che ancora non aveva finito di dettare.
Ad ogni modo, se l’interruzione era dovuta ad una mia domanda, mi scusavo perché avevo l’impressione di fargli perdere tempo, di rubargli tempo prezioso per lavorare. Ma il Professore invece mi rispondeva rassicurandomi, diceva che facevo bene a chiedere, che era giusto ed era meglio anche per lui, lo aiutava e gli faceva piacere. Credo che questa fosse la migliore dimostrazione di quello che a suo dire era stato un grande insegnamento professionale ed umano da parte di sua moglie, la professoressa Arnett: “gli studenti prima di tutto”. E con buona pace, spesso, anche dei colleghi che passavano in second’ordine. Ricordava lui stesso come, con sua grande sorpresa, il corso monografico più riuscito fosse stato quello di ectodica shakespeariana basato sul lavoro su Sir Thomas More e su The Insatiate Countess. Il più riuscito perché, nonostante la materia piuttosto ostica, aveva saputo avvincere e coinvolgere gli studenti ogni oltre aspettativa; e questa cosa gli aveva dato una grandissima soddisfazione. È chiaro che Giorgio Melchiori non soltanto era un grande studioso, ma davvero insegnate e maestro impareggiabile.
E a questo proposito mi è sempre sembrato strano il fatto che il Professore elogiasse il collega ed amico Agostino Lombardo “capace di formare una scuola”. La stranezza chiaramente non risiede nel fatto che Giorgio Melchiori elogiasse Agostino Lombardo – è noto che tra i due vi fosse una forte amicizia e una stima professionale reciproca. Ma strano il fatto che il Professore pensasse di non aver mai avuto una scuola. Eppure, da Renato Oliva (e tutto il gruppo di allievi torinesi) passando per Franca Ruggieri (che si laureò con Mario Praz e Giorgio Melchiori) a tanti altri nomi di accademici ed anglisti fino ai più giovani come John McCourt (per il quale Giorgio Melchiori era stato external examiner per la tesi di dottorato) in tanti possiamo dire di essere cresciuti, chi negli anni Sessanta, chi in questo primo decennio del nuovo millennio grazie al nostro Maestro Giorgio Melchiori, ai suoi insegnamenti umani e professionali, alla sua scuola. Grazie Professore.